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Nel marzo di quell’anno l’ego di Giusva fu invitato a stare tre pomeriggi della sua vita in tribuna; fu pregato di cantare in coro di pancia cuore e gola. Gli organizzatori del concerto, fra cui c’era il critico musicale Down Ezio, furono sorpresi di apprendere che il loro nuovo scritturato non aveva mai preso parte a un concerto dalla curva, e dovettero faticare per prepararlo al tifo – Siete sicuri di non volermi come corista? – si erano sentiti chiedere – Ho dato concerti con le caviglie, ma voi pensate che la gente voglia ascoltarmi da solo?

I cori ebbero un esito trionfale, che si ripeté le settimane successive nelle città toccate dal calendario. La strada dell’addio era ormai aperta: nelle domeniche successive il corista tornò altre domeniche dal mister che lo accoglieva in panchina con il calore dell’Unione Sovietica. Quanto ai cultori della jinga brasiliana misero velocemente il suo nome nel posto dei referendum indetti da Down Ezio che finivano con il fare paragoni ai migliori jazzisti. A oltre diciassette anni Giusva ha ancora l’aspetto atletico, il passo elastico di un giovanotto e l’entusiasmo di un neosviluppato alle prime armi. I compagni però lo chiamavano Anima perché riconoscevano in lui il loro capostipite, con uno stile nel palleggio che non sarebbe mai invecchiato. – Giusva può andare avanti a palleggiare per novant’anni. – ha detto uno dei suoi amici più stretti: Massimo Nisi.

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Fra i due vecchi amici dell’epoca dei Diavoli e degli Angeli non c’era più l’armonia di un tempo: la prepotenza di Edilio, che spesso lo strapazzava come uno scolaretto riusciva intollerabile a Giusva, che nel 1985 se ne andò. La reazione del maestrino fu ascoltata da Down Ezio. – Giusva sta tutto dentro al suo ego! – si sfogò Edilio con chi lo incrociava – Se ha voluto andare via, che il diavolo se lo porti! È bravo, sicuro, ma possiamo fare a meno di lui.

Gli anni che seguirono confermarono la mancanza di chiarezza delle idee di Giusva sul suo ruolo in campo e sulle sue migliori qualità. Giocò diverse partite sulla fascia finendo per domiciliarsi in una zona distante da lì a San Francisco rispetto al centro del gioco: qui per tutta i secondi tempi delle partite aspettava la palla con un sesto senso per il gol che girava l’Europa in turnè. Poi realizzò un altro suo vecchio sogno rimanendo in panchina dove si esibiva con le borracce senza disdegnare di fornire tea caldo a un compagno più bravo a parlare in giapponese. Probabilmente riteneva di aver concluso la sua carriera di golman, e certamente l’allenatore si era dimenticato di lui. I suoi numeri non gli uscivano più da diversi anni ed erano ormai sepolti sotto il silenzio.

Chi vide quei gol non nascose comunque qualche nostalgica perplessità. Il talento di Giusva, dio un tempo, era sparito di tanto, le folgoranti mosse di anche avevano lasciato il posto a movimenti fiacchi, il tocco di palla si era fatto più solo. Ancora più deludenti le sue esecuzìoni con piccoli triangoli che sapevano di ruggine. Solo di tanto in tanto non si guardava le unghie. La resurrezione di Giusva costituì dunque una sorpresa per tutti. A cominciare dallo stesso interrato.